martedì 24 febbraio 2015

Jean Jacques Rousseau, tra ideali educativi e scelte di vita

L’infanzia in realtà non si conosce. Nel bambino cercano sempre l’uomo, senza badare a ciò che è il bambino prima di essere un uomo. E’ questo lo studio al quale mi sono più applicato, affinché si potesse comunque profittare delle mie osservazioni, quand’anche il mio metodo fosse falsato e campato in aria. Cominciate perciò lo studio dei vostri allievi: perché sicuramente non li conoscete affatto”.

J.J. Rousseau, "L'Emilio o dell'educazione"



Jean Jacques Rousseau (1712-1778) è considerato dai più il padre della pedagogia moderna, colui che, nell'"Emilio", non ebbe timore di criticare, venendo per questo condannato e perseguitato, i metodi di educazione tradizionali, anticipando sotto molteplici aspetti, pratiche che solo secoli dopo sono diventati uso comune. 
Rousseau inizia il primo libro dell’”Emilio” con l’affermazione che “tutto è buono quando esce dalle mani dell’Autore di tutte le cose, tutto degenera tra le mani dell’uomo”. Già dalla prima frase dell’opera cogliamo il centro dell’ideale di Rousseau della natura e della società umana: la natura è buona, la società è cattiva. Quando esce dalle mani dell’Autore l’uomo, il bambino, è buono, perché è naturale. Ma quando entra a contatto con la società, con i suoi vizi, si corrompe e degenera.
 Subito dopo riscontriamo un altro punto fondamentale delle idee sull’educazione di Rousseau: il ruolo materno. Egli dice infatti: “Mi rivolgo a te, dolce madre previdente”. Per Rousseau infatti la prima educazione deve essere esclusivamente compito della madre, che viene subito attaccata per il fatto che sia una nutrice ad occuparsi dei figli. A quel tempo era infatti uso comune che i figli delle famiglie aristocratiche fossero mandati a balia per permettere alle donne di continuare le loro funzioni aristocratiche da salotto. Rousseau critica duramente quest’abitudine: “Nulla può supplire l’attenzione materna”. Dal vantaggio di non doverli allattare le donne traggono il danno di dover dividere il diritto di madre, vedere il proprio figlio amare un’altra donna come sua madre e più di sua madre. Allora le madri provano a rimediare insegnando ai figli il disprezzo per la nutrice, ma cosa gli insegnano davvero in questo modo? Nient’altro che l’ingratitudine. Le donne hanno smesso di essere madri, e anche se lo volessero sarebbe difficile per loro riuscirci, poiché ormai vige l’usanza contraria e la donna dovrebbe combattere contro le opinioni della società (esemplare è il caso di Madame de Binet, amica di Rousseau che poté allattare la figlia solo perché illegittima). Ma oltre a fuggire il totale disinteresse dai figli, bisogna evitare anche l’eccesso opposto: quando una madre tende a proteggere troppo il figlio, nell’intento di preservarlo da ogni possibile danno e pericolo, non fa che indebolirlo. Tutto ciò è assolutamente sbagliato, poiché la prima infanzia è segnata dal pericolo e dalla malattia per una ragione: superando queste prove il bambino si rafforza, si rinvigorisce ed è più pronto ad affrontare i mali della vita.  Invece avviene che dopo aver passato sei o sette anni in mano a queste donne, il bambino venga affidato a un precettore che tutto gli insegna tranne che a conoscersi, a saper vivere e ad essere felice. Così come la vera nutrice è la madre, il vero precettore è il padre. Il bambino sarà educato meglio da un padre giudizioso e limitato che dal migliore dei maestri. Ma i padri adducono la scusa degli impegni e degli affari, si dicono troppo occupati, e così i figli vengono dispersi in collegi e conventi, fratelli e sorelle si conoscono appena, e la famiglia non è che un gruppo di estranei. Chi non può assolvere il dovere di padre, non deve diventarlo: non c’è povertà, lavoro o condizione umana che possano dispensarlo dal nutrire ed educare i propri figli. Invece si crede di poter dare al proprio figlio un altro padre col denaro, pagando un precettore perché assolva ai suoi compiti.
Dato che è difficile mettere in pratica tanti bei precetti in assenza di esempi e di dettagli: “E’ per questo che ho deciso di prendere un allievo immaginario, supponendo che abbia l’età, la salute, le conoscenze e il talento adatto per lavorare alla sua educazione, e guidarla dalla nascita sino al momento in cui, diventato uomo, non avrà bisogno di altra guida che se stesso”.
Inizia poi la descrizione di come deve essere il suo allievo, ovvero Emilio. Egli proviene da un paese con un clima temperato (la Francia), in modo che possa riuscire a vivere anche in altre zone del mondo senza soffrire eccessivamente un troppo brusco cambio di clima. E’ nobile, poiché il povero non ha davvero bisogno di educazione: l’educazione naturale deve rendere un uomo adatto a vivere in ogni condizione, è più ragionevole educare un ricco ad essere povero che viceversa. Emilio è orfano, poiché Rousseau succede a entrambi i loro doveri e diritti, ed Emilio obbedirà solo a lui. Deve essere sano, di buona costituzione e vigoroso, poiché non ha senso occuparsi di uno debole e malato, che porterebbe a due sacrifici per il mondo, il proprio e quello del proprio precettore. Sarà lo stesso Rousseau a scegliere la nutrice adatta per Emilio: deve avere appena partorito, in quanto la qualità del latte cambia con l’età del lattante; deve essere sana di corpo quanto di cuore, in quanto oltre al latte la nutrice deve dare al bambino una serie di cure, pazienza e dolcezza. Dato che l’aria è in grado di agire beneficamente sulla costituzione dei bambini già da piccoli, è importante che il bambino e la nutrice rimangano in campagna, dove possono respirare aria buona. Quando il bambino respira e si muove non deve trovare impedimenti: niente cuffie, fasce e pannolini, ma vestiti larghi e una culla grande e imbottita che gli permettano di muoversi e rafforzare gli arti. Le nutrici potrebbero lamentarsi di questo, poiché per loro è più facile badare a un bambino immobilizzato che ad uno completamente libero. Ma su questo non bisogna nemmeno discutere. L’apprendimento del bambino inizia con la nascita, e prima ancora di parlare, il bambino impara già. Le loro prime sensazioni sono puramente affettive: essi percepiscono solo il piacere e il dolore. E’ importante che non si faccia prendere al bambino alcuna abitudine: non tenerlo in braccio più da un lato che dall’altro, a mangiare, dormire o muoversi solo in determinate ore, deve essere preparato fin dall’inizio alla libertà ed a essere padrone di se stesso. All’inizio il bambino ha smania di conoscere, vuole toccare tutto, sentire tutto, ed è importante non opporsi a questo suo desiderio. E’ così che impara a sentire e distinguere caldo e freddo, duro e morbido, a valutare le grandezze e le figure dei corpi.
Bisogna mantenere la semplicità con i bambini: essi non hanno bisogno di sonagli d’oro, cristalli e ninnoli di ogni tipo, bastano teste di papavero e bastoncini di liquirizia per divertirli senza abituarli al lusso già da piccoli. I bambini sentono parlare da quando vengono al mondo e il loro organo pian piano si presta alle imitazioni, quindi le prime articolazioni che si fanno sentire al bambino devono essere facili, chiare e ripetute spesso e riferiti a oggetti sensibili che il bambino possa vedere. Non bisogna soffermarsi eccessivamente nel correggere i bambini nei loro errori di sintassi, poiché col tempo si correggeranno da soli, e non bisogna assolutamente pretendere che parli da prestissimo, riuscirà a parlare da solo man mano che ne sentirà la necessità. I primi sviluppi dell’infanzia avvengono quasi tutti contemporaneamente. Il bambino impara a mangiare, parlare e camminare più o meno nello stesso periodo. Questa è la prima età della sua esistenza eppure non ha alcuna idea, solo sensazioni.
Ma quali sono, secondo Rousseau, le caratteristiche del buon pedagogo?
Egli innanzitutto non deve essere un mercenario (il pedagogo è un  mestiere nobile, è impossibile farlo per denaro senza mostrarsi indegni). Deve essere padre egli stesso, o più che uomo, inoltre deve essere ben educato. Deve essere giovane, tanto giovane, poiché crescerà insieme al suo allievo e questo permetterà una facile creazione di legame tra i due. Il suo compito consiste nel guidare, più che nell’istruire, perciò si chiama pedagogo e non maestro (o magister).

Leggendo queste parole viene da immaginare un Rousseau padre modello, un precursore, capace di fornire ai propri figli la migliore tra le educazioni possibili. Eppure la realtà dei fatti è ben diversa. Basta dare uno sguardo all'altra grande opera di Rousseau, le "Confessioni", sua interessante autobiografia, per avere la possibilità di sentirsi raccontare dallo stesso autore la sua decisione di non assumersi le responsabilità della paternità (nonostante gli inviti fatti agli altri uomini nell'"Emilio" a non trascurare tali doveri).
La storia di Rousseau e dei suoi figli inizia nel 1745 quando lui incontra Therese le Vasseur, domestica lavandaia che lavorava nella pensione in cui l’uomo alloggiava e con cui va in poco tempo a convivere. Tra il 1746 e 1752 i due concepiranno 5 figli, tutti abbandonati nell’istituto di trovatelli di Parigi. L’”Emilio” viene pubblicato 10 anni dopo l’abbandono del 5° figlio.
Rousseau afferma che tale decisione ha alla base la mancanza di un matrimonio ufficiale con la madre dei suoi figli, la scarsa educazione di quest'ultima (che quindi non sarebbe in grado di educare i bambini) e le precarie condizioni economiche (in quegli anni egli lavorava saltuariamente su commissione). 
Seppur non vi siano prove evidenti, sembra che alla fine Rousseau si sia pentito di aver abbandonato i propri figli (forse la stessa scrittura dell’"Emilio" potrebbe essere un tentativo di riparare all’errore compiuto). Nelle "Confessioni" infatti Rousseau afferma che proprio durante la scrittura dell’Emilio aveva sentito il rimorso assalirlo per il dovere non rispettato. 

Grande teorico, scarso pratico, tuttavia innegabile è il contributo che questo pensatore ha fornito, e continua a fornire, alla pedagogia e all'educazione. Mi piace chiudere questo intervento, lasciando a voi ulteriori riflessioni, con un bella citazione tratta proprio dal primo libro dell'"Emilio":

"Si pensa soltanto a conservare il proprio bambino: non è sufficiente; occorre insegnargli a conservarsi da sé quando sarà adulto, a sopportare le percosse del destino, a sfidare l'opulenza e la miseria, a vivere, se necessario, tra i ghiacci dell'Islanda o tra le rocce infocate di Malta. Usate pure ogni possibile precauzione perché non muoia: dovrà ben morire una volta; e quand'anche la sua morte non fosse effetto delle troppe attenzioni, queste sarebbero pur sempre inopportune. Non importa tanto impedirgli di morire, quanto farlo vivere. E vivere non è respirare: è agire, è fare uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il sentimento di esistere"


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